La pienezza del Regno e la gioia del raccolto
Due piccole parabole (il grano che spunta da solo, il seme di senape): storie di terra che Gesù fa diventare storie di Dio. Con parole che sanno di casa, di orto, di campo, ci porta alla scuola dei semi e di madre terra, cancella la distanza tra Dio e la vita. Siamo convocati davanti al mistero del germoglio e delle cose che nascono, chiamati «a decifrare la nostra sacralità, esplorando quella del mondo» (P. Ricoeur). Nel Vangelo, la puntina verde di un germoglio di grano e un minuscolo semino diventano personaggi di un annuncio, una rivelazione del divino (Laudato si'), una sillaba del messaggio di Dio. Chi ha occhi puri e meravigliabili, come quelli di un bambino, può vedere il divino che traspare dal fondo di ogni essere (T. De Chardin). La terra e il Regno sono un appello allo stupore, a un sentimento lungo che diventa atteggiamento di vita. È commovente e affascinante leggere il mondo con lo sguardo di Gesù, a partire non da un cedro gigante sulla cima del monte (come Ezechiele nella prima lettura) ma dall'orto di casa. Leggero e liberatorio leggere il Regno dei cieli dal basso, da dove il germoglio che spunta guarda il mondo, raso terra, anzi: «raso le margherite» come mi correggeva un bambino, o i gigli del campo. Il terreno produce da sé, che tu dorma o vegli: le cose più importanti non vanno cercate, vanno attese (S. Weil), non dipendono da noi, non le devi forzare. Perché Dio è all'opera, e tutto il mondo è un grembo, un fiume di vita che scorre verso la pienezza. Il granellino di senape è incamminato verso la grande pianta futura che non ha altro scopo che quello di essere utile ad altri viventi, fosse anche solo agli uccelli del cielo. È nella natura della natura di essere dono: accogliere, offrire riparo, frescura, cibo, ristoro. È nella natura di Dio e anche dell'uomo. Dio agisce non per sottrazione, mai, ma sempre per addizione, aggiunta, intensificazione, incremento di vita: c'è come una dinamica di crescita insediata al centro della vita. La incrollabile fiducia del Creatore nei piccoli segni di vita ci chiama a prendere sul serio l'economia della piccolezza ci porta a guardare il mondo, e le nostre ferite, in altro modo. A cercare i re di domani tra gli scartati e i poveri di oggi, a prendere molto sul serio i giovani e i bambini, ad aver cura dell'anello debole della catena sociale, a trovare meriti là dove l'economia della grandezza sa vedere solo demeriti. Splendida visione di Gesù sul mondo, sulla persona, sulla terra: il mondo è un immenso parto, dove tutto è in cammino, con il suo ritmo misterioso, verso la pienezza del Regno. Che verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme. Verso la fioritura della vita, Il Regno è presentato come un contrasto, non uno scontro, bensì un contrasto di crescita, di vita. Dio come un contrasto vitale. Una dinamica che si insedia al centro della vita. verso il paradigma della pienezza e fecondità. Il Vangelo sogna mietiture fiduciose, frutto pronto, pane sulla tavola. Positività. Gioia del raccolto.
In principio a tutto un legame d’amore
Il Vangelo non offre, per parlare della Trinità, formule razionali o simboliche, ma il racconto di un appuntamento e di un invio. Le attribuisce nomi di famiglia e di affetto: Padre, Figlio, Respiro santo. Nomi che abbracciano e fanno vivere. Ci sono andati tutti all'appuntamento sul monte di Galilea. Tutti, anche quelli che dubitavano ancora, comunità ferita che ha conosciuto il tradimento, la fuga e il suicidio di uno di loro... Ma il maestro non li molla, e compie uno dei suoi gesti più tipici: si avvicinò e disse loro... quando ama Dio compie gesti molto umani. Gesù non accetta distanze: ancora non è stanco di avvicinarsi e di spiegare. Ancora non è stanco di attendermi nella mia lentezza a credere, viene più vicino, occhi negli occhi, respiro su respiro. È il viaggio eterno del nostro Dio “in uscita”, incamminato per tutta la terra, che bussa alla porta dell'umano, e la porta dell'umano è il volto, o il cuore. E se io non apro, come tante volte è successo, lui alla porta mi lascia un fiore. E tornerà. E non dubita di me. Io sono con voi tutti i giorni. Con voi, dentro le solitudini, gli abbandoni e le cadute; con voi anche dietro le porte chiuse, nei giorni in cui dubiti e in quelli in cui credi; nei giorni del canto e in quelli delle lacrime, quando ti ingoia la notte e quando ti pare di volare. L'ultima, suprema pedagogia di Gesù è così semplice: «avvicinarsi sempre, stare insieme, sussurrare al cuore, confortare e incalzare». Andate in tutto il mondo e annunciate. Affida la fede e la parola di felicità a discepoli con un peso sul cuore, eppure ce la faranno, e dilagherà in ogni paesaggio del mondo come fresca acqua chiara. Andate e battezzate, immergete ogni vita nell'oceano di Dio. Accompagnate ogni vita all'incontro con la vita di Dio e ne sia sommersa, ne sia intrisa e imbevuta, e poi sia sollevata in alto dalla sua onda mite e possente! Fatelo “nel nome del Padre”: cuore che pulsa nel cuore del mondo; “nel nome del Figlio”: il più bello tra i nati di donna; “nel nome dello Spirito”: vento che porta pollini di primavera e ci fa tutti vento nel suo Vento (D. M. Montagna). Come tutti i dogmi, anche quello della Trinità non è un freddo distillato concettuale, ma un forziere che contiene la sapienza del vivere, una sapienza sulla vita e sulla morte: in principio a tutto, nel cosmo e nel mio intimo, come in cielo così in terra, è posto un legame d'amore. “In principio, il legame”. E io, creato a immagine e somiglianza della Trinità, posso finalmente capire perché sto bene quando sono con chi mi vuole bene, capire perché sto male quando sono nella solitudine: è la mia natura profonda, la nostra divina origine.
Se tu ami, la tua vita è comunque un successo
I pochi versetti del Vangelo di oggi ruotano intorno al magico vocabolario degli innamorati: amore, amato, amatevi, gioia. «Tutta la legge inizia con un “sei amato” e termina con un “tu amerai”. Chi astrae da questo, ama il contrario della vita» (P. Beauchamp). Roba grossa. Questione che riempie o svuota la vita: questo vi dico perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. L'amore è da prendere sul serio, ne va del nostro benessere, della nostra gioia. Anzi, ognuno di noi vi sta giocando, consapevole o no, la partita della propria eternità. Io però faccio fatica a seguirlo: l'amore è sempre così poco, così a rischio, così fragile. Faccio fatica perfino a capire in che cosa consista l'amore vero, vi si mescola tutto: passione, tenerezza, emozioni, lacrime, paure, sorrisi, sogni e impegno concreto. L'amore è sempre meravigliosamente complicato, e sempre imperfetto, cioè incompiuto. Sempre artigianale, e come ogni lavoro artigianale chiede mani, tempo, cura, regole: se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore. Ma come, Signore, chiudi dentro i comandamenti l'unica cosa che non si può comandare? Mi scoraggi: il comandamento è regola, costrizione, sanzione. Un guinzaglio che mi strattona. L'amore invece è libertà, creatività, una divina follia... Ma Gesù, il guaritore del disamore, offre la sua pedagogia sicura in due tempi: 1. Amatevi gli uni gli altri. Non semplicemente: amatevi. Ma: gli uni gli altri, Non si ama l'umanità in generale o in teoria. Si amano le persone ad una ad una; si ama quest'uomo, questa donna, questo bambino, il povero qui a fianco, faccia a faccia, occhi negli occhi. 2. Amatevi come io vi ho amato. Non dice “quanto me”, perché non ci arriveremmo mai, io almeno; ma “come me”, con il mio stile, con il mio modo unico: lui che lava i piedi ai grandi e abbraccia i bambini; che vede uno soffrire e prova un crampo nel ventre; lui che si commuove e tocca la carne, la pelle, gli occhi; che non manda via nessuno; che ci obbliga a diventare grandi e accarezza e pettina le nostre ali perché pensiamo in grande e voliamo lontano. Chi ti ama davvero? Non certo chi ti riempie di parole dolci e di regali. L'amore è vero quello che ti spinge, ti incalza, ti obbliga a diventare tanto, infinitamente tanto, a diventare il meglio di ciò che puoi diventare (Rainer Maria Rilke). Così ai figli non servono cose, ma padri e madri che diano orizzonti e grandi ali, che li facciano diventare il meglio di ciò che possono diventare. Anche quando dovesse sembrare che si dimenticano di noi. Parola di Vangelo: se ami, non sbagli. Se ami, non fallirai la vita. Se ami, la tua vita è stata già un successo, comunque.
Il Dio-pastore dona la vita anche a chi gliela toglie
Io sono il buon pastore! Per sette volte Gesù si presenta: “Io sono” pane, vita, strada, verità, vite, porta, pastore buono. E non intende “buono” nel senso di paziente e delicato con pecore e agnelli; non un pastore, ma il pastore, quello vero, l'autentico. Non un pecoraio salariato, ma quello, l'unico, che mette sul piatto la sua vita. Sono il pastore bello, dice letteralmente il testo evangelico originale. E noi capiamo che la sua bellezza non sta nell'aspetto, ma nel suo rapporto bello con il gregge, espresso con un verbo alto che il Vangelo oggi rilancia per ben cinque volte: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Qual è il contenuto di questo dono? Il massimo possibile: “Io offro la vita”. Molto di più che pascoli e acqua, infinitamente di più che erba e ovile sicuro. Il pastore è vero perché compie il gesto più regale e potente: dare, offrire, donare, gettare sulla bilancia la propria vita. Ecco il Dio-pastore che non chiede, offre; non prende niente e dona il meglio; non toglie vita ma dà la sua vita anche a coloro che gliela tolgono. Cerco di capire di più: con le parole “io offro la vita” Gesù non si riferisce al suo morire, quel venerdì, inchiodato a un legno. “Dare la vita” è il mestiere di Dio, il suo lavoro, la sua attività inesausta, inteso al modo delle madri, al modo della vite che dà linfa al tralci (Giovanni), della sorgente che zampilla acqua viva (Samaritana), del tronco d'olivo che trasmette potenza buona al ramo innestato (Paolo). Da lui la vita fluisce inesauribile, potente, illimitata. Il mercenario, il pecoraio, vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore. Al pastore invece importano, io gli importo. Verbo bellissimo: essere importanti per qualcuno! E mi commuove immaginare la sua voce che mi assicura: io mi prenderò cura della tua felicità. E qui la parabola, la similitudine del pastore bello si apre su di un piano non realistico, spiazzante, eccessivo: nessun pastore sulla terra è disposto a morire per le sue pecore; a battersi sì, ma a morire no; è più importante salvare la vita che il gregge; perdere la vita è qualcosa di irreparabile. E qui entra in gioco il Dio di Gesù, il Dio capovolto, il nostro Dio differente, il pastore che per salvare me, perde se stesso. L'immagine del pastore si apre su uno di quei dettagli che vanno oltre gli aspetti realistici della parabola (eccentrici li chiama Paul Ricoeur). Sono quelle feritoie che aprono sulla eccedenza di Dio, sul “di più” che viene da lui, sull'impensabile di un Dio più grande del nostro cuore. Di questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino e vorrei mettergli fra le mani tutti gli agnellini del mondo.
Le ferite del Risorto, alfabeto dell’amore
I discepoli erano chiusi in casa per paura. Paura dei capi dei giudei, delle guardie del tempio, della folla volubile, dei romani, di se stessi. E tuttavia Gesù viene. In quella casa dalle porte sbarrate, in quella stanza dove manca l'aria, dove non si può star bene, nonostante tutto Gesù viene. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù a porte chiuse. La prima sua venuta sembra senza effetto, otto giorni dopo tutto è come prima, eppure lui è di nuovo lì. Secoli dopo è ancora qui, davanti alle mie porte chiuse, mite e determinato come un seme che non si lascia sgomentare da nessun nero di terra. Che bello il nostro Dio! Non accusa, non rimprovera, non abbandona, ma si ripropone, si riconsegna a discepoli che non l'hanno capito, facili alla viltà e alla bugia. Li aveva inviati per le strade di Gerusalemme e del mondo, e li ritrova ancora paralizzati dalla paura. In quali povere mani si è messo. Che si stancano presto, che si sporcano subito. Eppure accompagna con delicatezza infinita la fede lenta dei suoi, ai quali non chiede di essere perfetti, ma di essere autentici; non di essere immacolati, ma di essere incamminati. E si rivolge a Tommaso – povero caro Tommaso diventato proverbiale. Ma è proprio il Maestro che l'aveva educato alla libertà interiore, a non omologarsi, rigoroso e coraggioso, ad andare e venire, lui galileo, per le strade della grande città giudea e ostile. Gesù lo invita: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco. La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite, come ci saremmo aspettati. Perché la croce non è un semplice incidente di percorso da superare e dimenticare, ma è la gloria di Gesù, il punto più alto dell'arte divina di amare, che in quelle ferite si offre per sempre alla contemplazione dell'universo. È proprio a causa di quei fori nelle mani e nel fianco che Dio l'ha risuscitato, e non già nonostante essi: sono l'alfabeto indelebile della sua lettera d'amore. Gesù non vuole forzare Tommaso, ne rispetta la fatica e i dubbi, sa i tempi di ciascuno, conosce la complessità del vivere. Ciò che vuole è il suo stupore, quando capirà che la sua fede poggia sulla cosa più bella del mondo: un atto d'amore perfetto. Tocca, guarda, metti! Se alla fine Tommaso abbia toccato o no, non ha più alcuna importanza. Mio Signore e mio Dio. Tommaso ripete quel piccolo aggettivo “mio” che cambia tutto. Mio non di possesso, ma di appartenenza: stringimi in te, stringiti a me. Mio, come lo è il cuore. E, senza, non sarei. Mio, come lo è il respiro. E, senza, non vivrei.
PREGHIERA ALLA DIVINA MISERICORDIA
Ti benediciamo, Padre Santo: nel tuo immenso amore verso il genere umano, hai mandato nel mondo come Salvatore il tuo Figlio, fatto uomo nel grembo della Vergine purissima. In Cristo, mite ed umile di cuore tu ci hai dato l'immagine della tua infinita Misericordia. Contemplando il suo volto scorgiamo la tua bontà, ricevendo dalla sua bocca le parole di vita, ci riempiamo della tua sapienza; scoprendo le insondabili profondità del suo cuore impariamo benignità e mansuetudine; esultando per la sua resurrezione, pregustiamo la gioia della Pasqua eterna. Concedi o Padre che i tuoi fedeli, onorando questa sacra effigie abbiano gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, e diventino operatori di concordia e di pace. Il Figlio tuo o Padre, sia per tutti noi la verità che ci illumina, la vita che ci nutre e ci rinnova, la luce che rischiara il cammino, la via che ci fa salire a te per cantare in eterno la tua Misericordia. Egli è Dio e vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.
Giovanni Paolo II
La settimana in cui stare vicino alle ferite di Gesù
L'entrata di Gesù a Gerusalemme non è solo un evento storico, ma una parabola in azione. Di più: una trappola d'amore perché la città lo accolga, perché io lo accolga. Dio corteggia la sua città (fede è la mia risposta al corteggiamento di Dio): viene come un Re mendicante (il maestro ne ha bisogno, ma lo rimanderà subito), così povero da non possedere neanche la più povera bestia da soma. Un Potente umile, che non si impone, si propone; come un disarmato amante. Benedetto Colui che viene. È straordinario poter dire: Dio viene. In questo paese, per queste strade, nella mia casa che sa di pane e di abbracci, Dio viene ancora, viaggiatore dei millenni e dei cuori. Si avvicina, è alla porta. La Settimana Santa dispiega, a uno a uno, i giorni del nostro destino; ci vengono incontro lentamente, ognuno generoso di segni, di simboli, di luce. In questa settimana, il ritmo dell'anno liturgico rallenta, possiamo seguire Gesù giorno per giorno, quasi ora per ora. La cosa più santa che possiamo fare è stare con lui: «uomini e donne vanno a Dio nella loro sofferenza, piangono per aiuto, chiedono pane e conforto. Così fan tutti, tutti. I cristiani invece stanno vicino a Dio nella sua sofferenza» (Bonhoffer). Stanno vicino a un Dio che sulla croce non è più "l'onnipotente" dei nostri desideri infantili, il salvagente nei nostri naufragi, ma è il Tutto-abbracciante, l'Onni-amante cha fa naufragio nella tempesta perfetta dell'amore per noi. Sono giorni per stare vicino a Dio nella sua sofferenza: la passione di Cristo si consuma ancora, in diretta, nelle infinite croci del mondo, dove noi possiamo stare accanto ai crocifissi della storia, lasciarci ferire dalle loro ferite, provare dolore per il dolore della terra, di Dio, dell'uomo, patire e portare conforto. La croce disorienta, ma se persisto a restarle accanto come le donne, a guardarla come il centurione, esperto di morte, di certo non capirò tutto, ma una cosa sì, che lì, in quella morte, è il primo vagito di un mondo nuovo. Cosa ha visto il centurione per pronunciare lui, pagano, il primo compiuto atto di fede cristiano: "era il Figlio di Dio"? Ha visto un Dio che ama da morire, da morirci. La fede cristiana poggia sulla cosa più bella del mondo: un atto d'amore perfetto. Ha visto il capovolgimento del mondo; Dio che dà la vita anche a chi gli dà la morte; il cui potere è servire anziché asservire; vincere la violenza non con un di più di violenza, ma prendendola su di sé. La croce è l'immagine più pura, più alta, più bella che Dio ha dato di se stesso. Sono i giorni che lo rivelano: "per sapere chi sia Dio devo solo inginocchiarmi ai piedi della Croce"(K. Rahner).
La lezione di “vita” del chicco che “muore”
Vogliamo vedere Gesù: domanda dell'anima eterna dell'uomo che cerca, e che sento mia. La risposta di Gesù esige occhi profondi: se volete capire guardate il chicco di grano, cercate nella croce, sintesi ultima del Vangelo. Se il chicco di grano non muore resta solo, se muore produce molto frutto. Una delle frasi più celebri e più difficili del Vangelo. Quel «se muore» fa peso sul cuore e oscura tutto il resto. Ma se ascolti la lezione del chicco, il senso si sposta; se osservi, vedi che il cuore del seme, il nucleo intimo e vivo da cui germoglierà la spiga, è il germe, e il grembo che lo avvolge è il suo nutrimento. Il chicco in realtà è un forziere di vita che lentamente si apre, un piccolo vulcano vivo da cui erompe, invece che lava, un piccolo miracolo verde. Nella terra ciò che accade non è la morte del seme (il seme marcito è sterile) ma un lavorio infaticabile e meraviglioso, una donazione continua e ininterrotta, vero dono di sé: la terra dona al chicco i suoi elementi minerali, il chicco offre al germe (e sono una cosa sola) se stesso in nutrimento, come una madre offre al bimbo il suo seno. E quando il chicco ha dato tutto, il germe si lancia all'intorno con le sue radici affamate di vita, si lancia verso l'alto con la punta fragile e potentissima delle sue foglioline. Allora il chicco muore sì, ma nel senso che la vita non gli è tolta ma trasformata in una forma di vita più evoluta e potente. “Quello che il bruco chiama fine del mondo tutti gli altri chiamano farfalla” (Lao Tze), non striscia più, vola; muore alla vita di prima per continuare a vivere in una forma più alta. Il verbo principale che regge la parabola del seme è «produce frutto». Gloria di Dio non è il morire ma la fecondità, e il suo innesco è il dono di sé. La chiave di volta che regge il mondo, dal chicco a Cristo, non è la vittoria del più forte ma il dono. La seconda icona offerta da Gesù è la croce, l'immagine più pura e più alta che Dio ha dato di se stesso. Per sapere chi sia Dio devo solo inginocchiarmi ai piedi della Croce (Karl Rahner). Dio entra nella morte perché là va ogni suo figlio. Ma dalla morte esce come germe dalla terra, forma di vita indistruttibile, e ci trascina fuori, in alto, con sé. Gesù: un chicco di grano che si consuma e germoglia; una croce nuda dove già respira la risurrezione. “La Croce non ci fu data per capirla ma per aggrapparci ad essa” (Bonhoeffer): attratto da qualcosa che non capisco, ma che mi seduce e mi rassicura, mi aggrappo alla sua Croce, cammino con Lui, in eterno morente nei suoi fratelli, in eterno risorgente. Sulla croce l'arte divina di amare si offre alla contemplazione cosmica, si dona alla fecondità delle vite.
ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE
Nella Solennità dell’ Annunciazione del Signore si ricorda il momento in cui nella città di Nazareth l’ angelo del Signore diede l’ annuncio a Maria: «Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e verrà chiamato Figlio dell’ Altissimo», e Maria rispondendo disse: «Ecco la serva del Signore; avvenga per me secondo la tua parola». E così, compiutasi la pienezza dei tempi, Colui che era prima dei secoli, l’ Unigenito Figlio di Dio, «per noi uomini e per la nostra salvezza si incarnò nel seno di Maria Vergine per opera dello Spirito Santo e si è fatto uomo», come si recita nel Credo. Il nome è dato in riferimento all’ annunzio dell’ angelo Gabriele a Maria circa la nascita del Messia, secondo il racconto del Vangelo di Luca. Considerata l’ importanza di questo annunzio, che si colloca al centro della storia della salvezza, cioè nella “pienezza del tempo”, la Vergine di Nazaret diviene l’ Annunziata. I nove mesi tra la concezione e la nascita di Gesù spiegano la data del 25 marzo rispetto alla solennità del 25 dicembre del Natale del Signore. Calcoli eruditi e considerazioni mistiche fissavano ugualmente al 25 marzo l'evento della prima creazione e della rinnovazione del mondo nella Pasqua. Cadendo comunque nel periodo di Quaresima, la data di questa solennità in alcuni anni viene trasferita. Questo avviene quando il 25 marzo cade nella Settimana santa (ad esempio, nel 2013 e nel 2016), nella Settimana di Pasqua o coincide con una Domenica di Quaresima (nel 2012) o di Pasqua (nel 2008). Le ricerche storiche stabiliscono che essa è sorta all’ interno della celebrazione del Natale, come conseguenza o come preparazione. È certo che “nella prima metà del VI secolo, la Chiesa di Costantinopoli celebra con solennità l’ Euaggelismòs (Annunciazione) il 25 marzo”, ciò si trasferirà a Roma e nella Spagna nel secolo seguente, sennonché nel 656 il concilio di Toledo istituisce la festa mariana del 18 dicembre. In tal modo si perde la correlazione cronologica con il Natale e con l’ idea che l’ Incarnazione, come la creazione del mondo, venga a coincidere con l’ equinozio di primavera. Nel Medioevo il giorno dell’ Annunciazione è in molti luoghi l’ inizio dell’ anno civile e punto di riferimento per la numerazione degli anni. Poi s’ impose il Natale come inizio dell’ era cristiana. Nel 1972 il Messale di Paolo VI nomina la festa come Annunciazione del Signore e ne dota la celebrazione di un ricco formulario; ma nell’ esortazione apostolica Marialis cultus (1974) la interpreta come “festività di Cristo e insieme della Vergine”.
L’essenziale è il grande amore di Dio per il mondo
Si è appena conclusa la scena irruente, fragorosa di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio. A Gerusalemme, capi e gente comune tutti parlano della novità di quel giovane rabbi. Ora, da quella scena clamorosa e sovversiva si passa a un vangelo intimo e raccolto. Nicodemo ha grande stima di Gesù e vuole capire di più, ma non osa compromettersi e si reca da lui di notte. Prima sorpresa: quel Gesù che dirà «il vostro parlare sia sì sì, no no», rispetta la paura di Nicodemo, non si perde nei limiti della sua poca coerenza, ma mostrando comprensione per la sua debolezza, lo trasforma nel coraggioso che si opporrà al suo gruppo (Gv 7,50) e verrà al tramonto del grande venerdì (Gv 19,39) a prendersi cura del corpo del Crocifisso. Quando tutti i coraggiosi fuggono, il pauroso va sotto la croce, portando trenta chili di aloe e mirra, una quantità in eccesso, una eccedenza di affetto e gratitudine. Gesù trasforma. È una via tutta nuova, per noi che i maestri dello spirito hanno sempre stretto nell'alternativa: coraggio o viltà, coerenza o incoerenza, resistenza o debolezza, perfezione o errore. Gesù mostra una terza via: il rispetto che abbraccia l'imperfezione, la fiducia che accoglie la fragilità e la trasforma. La terza via di Gesù è credere nel cammino dell'uomo più che nel traguardo, puntare sulla verità umile del primo passo più che sul raggiungimento della meta lontana. Maestro dei germogli. In quel dialogo notturno Gesù comunica, in poche parole, l'essenziale della fede: Dio ha tanto amato il mondo... è una cosa sicura, una cosa già accaduta, una certezza centrale: Dio è l'amante che ti salva. Parole decisive, da riassaporare ogni giorno e alle quali aggrapparci sempre. Dovete nascere dall'alto: io vivo delle mie sorgenti, ed ho sorgenti di cielo da ritrovare. Allora potrò finalmente nascere a una vita più alta e più grande, e guardare l'esistenza da una prospettiva nuova, da un pertugio aperto nel cielo, per vedere cosa è effimero e cosa invece è eterno. Quello che nasce dallo Spirito è Spirito. E la notte si illumina. Chi è nato dallo Spirito non solo ha lo Spirito ma è Spirito. Non solo è tempio dello Spirito, ma è della stessa sostanza dello Spirito. Ogni essere genera figli secondo la propria specie, le piante, gli animali, l'uomo e la donna. Ebbene, anche Dio genera figli secondo la specie di Dio. E non c'è maiuscolo o minuscolo nei testi originari: maiuscolo per lo Spirito di Dio, la sua forza generante, minuscolo per lo spirito dell'uomo generato. Non si riesce a distinguere se “spirito” si riferisca all'uomo o a Dio. Questa confusione è straordinaria. Una bellissima rivelazione: tu, rinato dallo Spirito, sei Spirito.
FAMIGLIA AMORIS LAETITIA ANNO 2021-2022
L’Anno “Famiglia Amoris Laetitia” è un’iniziativa di Papa Francesco, che intende raggiungere ogni famiglia nel mondo attraverso varie proposte di tipo spirituale, pastorale e culturale che si potranno attuare nelle parrocchie, nelle diocesi, nelle università, nell’ambito dei movimenti ecclesiali e delle associazioni familiari. L’esperienza della pandemia ha messo in luce il ruolo centrale della famiglia come Chiesa domestica e l’importanza dei legami comunitari tra famiglie, che rendono la Chiesa una “famiglia di famiglie” (AL 87). Essa merita un anno di celebrazioni perché sia posta al centro dell’impegno e della cura da parte di ogni realtà pastorale ed ecclesiale.
Gli obiettivi
1. Diffondere il contenuto dell’esortazione apostolica “Amoris Laetitia”, per “far sperimentare che il Vangelo della famiglia è gioia che riempie il cuore e la vita intera” (AL 200). Una famiglia che scopre e sperimenta la gioia di avere un dono e di essere dono per la Chiesa e la società, “può diventare una luce nel buio del mondo” (AL 66). E il mondo oggi ha bisogno di questa luce!
2. Annunciare che il sacramento del matrimonio è dono e ha in sé una forza trasformante dell’amore umano. A tal fine è necessario che pastori e famiglie camminino insieme in una corresponsabilità e complementarietà pastorale tra le diverse vocazioni nella Chiesa (cfr. AL 203).
3. Rendere le famiglie protagoniste della pastorale familiare. A questo scopo, è richiesto “uno sforzo evangelizzatore e catechetico indirizzato all’interno della famiglia” (AL 200), poiché una famiglia discepola diviene anche una famiglia missionaria.
4. Rendere i giovani consapevoli dell’importanza della formazione alla verità dell’amore e al dono di sé con iniziative a loro dedicate.
5. Ampliare lo sguardo e l'azione della pastorale familiare affinché divenga trasversale sulla famiglia, così da includere gli sposi, i bambini, i giovani, gli anziani e le situazioni di fragilità familiare
Conservare la luce per quando viene il buio
Il monte della luce, collocato a metà del racconto di Marco, è lo spartiacque della ricerca su chi è Gesù. Come in un dittico, la prima parte del suo libretto racconta opere e giorni del Messia, la seconda parte, a partire da qui, disegna il volto altro del "Figlio di Dio": vangelo di Gesù, il Cristo, il figlio di Dio (Mc 1,1). Il racconto è tessuto ad arte con i fili dorati della lingua dell'Esodo, monte, nube, voce, Mosè, splendore, ascolto, cornice di rivelazioni. Nuovo invece è il grido entusiasta di Pietro: che bello qui! Esperienza di bellezza, da cui sgorga gioia senza interessi. Marco sta raccontando un momento di felicità di Gesù (G. Piccolo) che contagia i suoi. A noi che il fariseismo eterno ha reso diffidenti verso la gioia, viene proposto un Gesù che non ha paura della felicità. E i suoi discepoli con lui. Gesù è felice perché la luce è un sintomo, il sintomo che lui, il rabbi di Nazaret, sta camminando bene, verso il volto di Dio; e poi perché si sente amato dal Padre, sente le parole che ogni figlio vorrebbe sentirsi dire; ed è felice perché sta parlando dei suoi sogni con i più grandi sognatori della Bibbia, Mosè ed Elia, il liberatore e il profeta; perché ha vicino tre ragazzi che non capiscono granché, ma che comunque gli vogliono bene, e lo seguono da anni, dappertutto. Anche i tre apostoli guardano, si emozionano, sono storditi, sentono l'urto della felicità e della bellezza sul monte, qualcosa che toglie il fiato: che bello con te, rabbi! Vedono volti imbevuti di luce, occhi di sole, quello che anche noi notiamo in una persona felice: ti brillano gli occhi! Vorrebbero congelare quella esperienza, la più bella mai vissuta: facciamo tre capanne! Fermiamoci qui sul monte, è un momento perfetto, il massimo! C'è un Dio da godere, da esserne felici. Ma è un'illusione breve, la vita non la puoi fermare, la vita è infinita e l'infinito è nella vita, ordinaria, feriale, fragile e sempre incamminata. La felicità non la puoi conservare sotto una campana di vetro o rinchiudere dentro una capanna. Quando ti è data, miracolo intermittente, godila senza timori, è una carezza di Dio, uno scampolo di risurrezione, una tessera di vita realizzata. Godi e ringrazia. E quando la luce svanisce e se ne va, lasciala andare, senza rimpianti, scendi dal monte ma non dimenticarlo, conserva e custodisci la memoria della luce vissuta. Così sarà per i discepoli quando tutto si farà buio, quando il loro Maestro sarà preso, incatenato, deriso, spogliato, torturato, crocifisso. Come loro, anche per noi nei nostri inverni, sarà necessario cercare negli archivi dell'anima le tracce della luce, la memoria del sole per appoggiarvi il cuore e la fede. Dall'oblio discende la notte.
I mercanti nel tempio e quelli nel nostro cuore
L'episodio della cacciata dei mercanti nel tempio si è stampato così prepotentemente nella memoria dei discepoli da essere riportato da tutti i Vangeli. Ciò che sorprende, e commuove, in Gesù è vedere come in lui convivono e si alternano, come in un passo di danza, la tenerezza di una donna innamorata e il coraggio di un eroe (C. Biscontin), con tutta la passione e l'irruenza del mediorientale. Gesù entra nel tempio: ed è come entrare nel centro del tempo e dello spazio. Ciò che ora Gesù farà e dirà nel luogo più sacro di Israele è di capitale importanza: ne va di Dio stesso. Nel tempio trova i venditori di animali: pecore, buoi e mercanti sono cacciati fuori, tutti insieme, eloquenza dei gesti. Invece ai venditori di colombe rivolge la parola: la colomba era l'offerta dei poveri, c'è come un riguardo verso di loro. Gettò a terra il denaro, il dio denaro, l'idolo mammona innalzato su tutto, insediato nel tempio come un re sul trono, l'eterno vitello d'oro. Non fate della casa del Padre mio un mercato... Mi domando qual è la vera casa del padre. Una casa di pietre? «Casa di Dio siamo noi se custodiamo libertà e speranza» (Eb 3,6). La parola di Gesù allora raggiunge noi: non fate mercato della persona! Non comprate e non vendete la vita, nessuna vita, voi che comprate i poveri, i migranti, per un paio di sandali, o un operaio per pochi euro. Se togli libertà, se lasci morire speranze, tu dissacri e profani il più vero tabernacolo di Dio. E ancora: non fate mercato della fede. Tutti abbiamo piazzato ben saldo nell'anima un tavolino di cambiamonete con Dio: io ti do preghiere, sacrifici e offerte, tu in cambio mi assicuri salute e benessere, per me e per i miei. Fede da bottegai, che adoperano con Dio la legge scadente, decadente del baratto, quasi che quello di Dio fosse un amore mercenario. Ma l'amore, se è vero, non si compra, non si mendica, non si finge. Dio ha viscere di madre: una madre non la puoi comprare, non la devi pagare, da lei sei ripartorito ogni giorno di nuovo. Un padre non si deve placare con offerte o sacrifici, ci si nutre di ogni suo gesto e parola come forza di vita. Pochi minuti dopo, i mercanti di colombe avevano già rimesso in fila le loro gabbie, i cambiamonete avevano recuperato dal selciato anche l'ultimo spicciolo. Il denaro era pesato e contato di nuovo, era riciclato a norma di legge. Benedetto da tutti: pellegrini, sacerdoti, mercanti e mendicanti. Il gesto di Gesù sembra non avere conseguenze immediate, ma è profezia in azione. E il profeta ama la parola di Dio più ancora dei suoi risultati. Il profeta è il custode che veglia sulla feritoia per la quale entrano nel cuore speranza e libertà. Chi vuole pagare l'amore va contro la sua stessa natura e lo tratta da prostituta. Quando i profeti parlavano di prostituzione nel tempio, intendevano questo culto, tanto pio quanto offensivo di Dio, quando il fedele vuole gestire Dio: io ti do preghiere e sacrifici, tu mi dai sicurezza e salute. L'amore non si compra, non si mendica, non si impone, non si finge. Ma poi, se entrasse nella mia casa, che cosa mi chiederebbe di rovesciare in terra, tra i miei piccoli o grandi idoli? Tutto il superfluo...
Percorso quaresimale
Gesù tutti ti cercano!
Stili di vita evangelici
Mc. 9,1-9 La trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor. Simbolo: Il ponte La relazione è alla base della nostra vita a tal punto che senza relazioni non possiamo vivere in modo fecondo. Aprire dei ponti verso l’altro significa vincere la distanza dovuta alla differenza di età, sensibilità, di pensiero e trovare così un punto di incontro per un arricchimento reciproco. A volte il ponte serve anche per raggiungere una situazione di difficoltà che ha creato isolamento nella persona. La carità cristiana aiuta a stringere nuove relazioni, nuovi contatti di aiuto. Come buona azione possiamo decidere di aprire un ponte verso una persona che sentiamo molto distante per svariati motivi. Fare il primo passo per incontrare l’altro anche se questo costa molta fatica.