Cena del Baccalà parrocchia di Vallà
Accettare un Dio che sovverte gli schemi
Chissà come si immaginavano il regno del Maestro quei due fratelli, chissà quanto tempo avranno passato a fantasticare sulla bellezza di quei troni, figurandosi bardati di mantelli e corone, con in mano un qualche scettro simbolo di potere. Quanto si saranno gasati nell’immaginarsi così importanti, uno a destra e l’altro a sinistra, a giudicare, a far paura, a rimproverare e punire. Ma cosa avevano capito fino ad allora? Ma cosa abbiamo capito noi che ancora oggi dopo duemila anni di Vangelo sgomitiamo per un posto in evidenza, per un pugno di potere da esercitare in famiglia, in politica, nelle chiese, nelle associazioni? Eppure poco prima Gesù lo aveva già detto; abbracciando un bambino aveva dimostrato, come un teorema, quanto la misura di Dio è la piccolezza, la fragilità, la povertà, il nulla pretendere: l’amore disarmato. Che fatica accettare un Dio così rivoluzionario che sovverte gli schemi, che ribalta le certezze; che fatica anche solo pensare a un Dio che non vuole comandare e spaventare, dominare e soggiogare, ma chino su di noi, a farsi nido entro cui scaldarci, riparo dove riposare, braccia tra le quali addormentarsi. E daccapo Gesù a spiegare, pazientemente, come un maestro con dei bambini un po’ lenti all’apprendimento, dolcemente, come un genitore che sa che il figlio non è proprio una cima d’intelligenza: «Voi sapete…tra voi però chi vuole diventare grande sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo sarà schiavo di tutti». Dove l’ha imparata questa matematica il Maestro? In quale accademia di filosofia ha appreso la logica secondo la quale gli ultimi sono i primi e viceversa e che gli schiavi valgono più dei dominatori? Questa non è logica umana, questa è follia di Dio che non viene a spadroneggiare, a giudicare, a farci sentire inadeguati e incapaci. Non schiaccia, ma solleva il Padre buono, non mortifica ma avvolge di tenerezza, tanta tenerezza da morirne. Quel Dio che «rovescia i potenti dai troni e che innalza gli umili, che ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote» è qui per noi, aspetta solo un cenno. Per servirci. E chissà che sorpresa sarà stata per Giacomo e Giovanni entrare nel regno e trovare troni scuciti e rattoppati, occupati da ladroni e prostitute: chissà che festa!
Dio ci dona un cuore che sogna amore e vita
E se invece avessimo un cuore tenero? Se il nostro cuore non fosse diventato un pezzo di pietra nel petto che non batte, non sussulta, non sobbalza, non si stupisce più davanti alla meraviglia del creato e al mistero dell’altro? Se non avessimo bisogno di leggi e norme che ci impongano il rispetto e la difesa della dignità, il tremore dinanzi alla diversità, l’attenzione e la cura verso chi è nostro compagno di cammino? Se fossimo cioè rimasti come Dio ci ha desiderato quando, impastandoci col fango e soffiando su di noi, ci ha resi vivi e amanti? Dio non impone leggi, Lui mette nel nostro cuore un pezzetto del suo cuore che sogna amore e vita ovunque e che, come un artista visionario, vede straripare la bellezza dai fili d’erba, la forza dalla gemma sull’albero, la potenza dallo scorrere dei ruscelli. Vede la possibilità che portiamo racchiusa come un tesoro nascosto e profondo: il nostro cuore tenero. L’amore non si esige con la legge, vorrebbe dire snaturarlo, sciuparlo, denigrarlo: l’amore chiede una tenerezza di cuore che significa apertura, capacità di commuoversi e brividi di stupore. Come potrebbe Gesù parlarci di un Dio attento alle norme, proprio Lui che guarisce di sabato, che mangia coi peccatori e le prostitute, che si ferma a parlare con donne straniere e sconosciute? Lui che nel suo cammino ha strappato legacci e divelto sbarre di prigioni: «Chi è senza peccato scagli pure la prima pietra… Stasera, Zaccheo, vengo a cena da te…». Lui che è venuto per restituirci la libertà. Continua, il brano di Vangelo, con una scena che sembra piovere là per caso, ma forse tanto a caso non è: quei bambini che non stanno mai fermi, che toccano, annusano curiosi, che si incantano sulle piccole cose sono forse l’esempio della tenerezza di cuore che Dio ci chiede. Quei bambini che spalancano gli occhi e la bocca per ascoltare, pronti a mettere la loro mano nella tua per seguirti fiduciosi, senza domande, senza precauzioni, solo perché da te si sentono amati e accuditi, che cantano come cicale d’estate, si prendono tutto l’abbraccio di Dio. Portati in alto dalle Sue braccia, sollevati da terra per guardarlo negli occhi e ridere con Lui: sarà forse questo il Suo regno? don Luigi Verdi
Il nostro destino? Diventare bambini
Meglio tacere, meglio far finta di non aver ascoltato e rischiare di passare per sordi piuttosto che sentirsi chiamare Satana, come era successo a Pietro. Le parole di Gesù sono dure, quasi le stesse di quelle dette la settimana scorsa: la via che prospetta il Maestro non è quella sognata, splendente e vittoriosa, ma una via aspra, dolorosa, che prevede perfino la morte: no, non è proprio quella prevista. Meglio concentrarsi su altro, meglio pensare a chi fra loro può ritenersi il più bravo, il più importante, facendo paragoni e soppesando qualità e difetti gli uni degli altri. Lui parla di un Dio che si consegna nelle nostre mani, tutto per amore, solo per amore e loro, come noi, si accaniscono a circoscrivere insignificanti spazi di potere. Lui indica fin dove si può arrivare quando si ama da Dio e loro, come noi, a creare sbarramenti e confini, chiusi nella piccolezza delle loro ambizioni. Vaglielo a far capire che l’amore è forte, ma che chi ama è debolissimo. Che pazienza, che infinita pazienza deve avere con quelle teste dure il Maestro, pronto a ricominciare ogni volta, a spiegare meglio, a cercare di far entrare in quei cuori un frammento del cuore di Dio. E allora eccolo a chiamarli tutti e dodici intorno a sé e a spiegar loro una nuova matematica dove per alzarsi bisogna abbassarsi, dove il primo è l’ultimo, il grande è il piccolo e le misure non sono quelle di sempre, ma quelle sovversive di Dio. Misure che ribaltano ogni logica umana, ogni razionalità e come sistema metrico viene adottato un bambino: “Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,4) come a ribadirci che le porte del paradiso sono basse, altezza di bambino, non di più. Come a dirci e ribadirci che forse Dio è un bambino entusiasta, con la sua voglia di creare e la sua sete di cose belle, curioso e leggero, mai statico ma sempre in continuo movimento. Al bambino non interessano le filosofie e i discorsi astratti, ma piuttosto fantasticare, immaginare, toccare le cose e lasciarsene sorprendere. Gli basta così poco: un tratto di matita ed è pronto a viaggiare. Non se ne fa niente dei titoli e delle onorificenze, ma cerca gli sguardi che vanno dritti al cuore, gli abbracci di chi gli asciuga le lacrime e lo fa sorridere. “Noi siamo i bambini del futuro” scriveva Bonhoeffer, l’infanzia è il nostro destino, non il nostro passato ed è uno scenario grande quello di diventare piccoli.
Toccandoci Gesù ci ama e ci apre alla vita vera
Capita anche a noi, e tante volte nella nostra vita, che ce ne stiamo chiusi in noi stessi, sigillando ben bene gli spazi attraverso i quali la vita può insinuarsi, tappando ogni pertugio per evitare che qualcosa di esterno entri in noi e ci ferisca. Capita anche a noi di essere sordomuti. Tanto sordi e tanto muti da non riuscire a dire il dolore che ci attanaglia e da non voler sentire quello dell’altro. Un grido strozzato. Bello allora oggi leggere questo brano di Vangelo che ci riporta davanti a Gesù, da soli, in disparte, io e Lui a guardarci negli occhi, un solo sguardo: il mio di impotenza, il Suo di amore sulla mia impotenza. A chi presuppone che Dio sia un Dio immateriale, etereo e intangibile Gesù dimostra che invece Lui ama sporcarsi le mani, lavandoci i piedi, toccando piaghe o infilandoci un dito nelle orecchie: Lui ama toccarci. Gesù tocca, sputa, spalma fango, alita, prende per mano perché a Lui piace così, sentire e farsi sentire concretamente: Lui ama toccarci. E la nostra pelle, al suo tocco, freme; il nostro cuore, al suo tocco, brucia, perché anche a noi viene sussurrato «Effatà», come un sospiro, come una preghiera. Apriti all’ascolto, apriti al dialogo, alla relazione, alla vita. Non pensare di essere solo, è questo ciò che ti fa tremare e ti spegne: apriti come si apre la finestra al mattino, lasciati raggiungere dall’aria pulita della notte, dal fresco della rugiada sull’erba. Sgancia le cerniere, fa’ saltare i lucchetti, rompi le catene che ti costringono e ti rendono muto e sordo. Ascolta: la vita parla e canta e che anche nella tua casa si faccia festa. Lo abbiamo sentito nella prima lettura: «Egli viene a salvarvi. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua». Oggi Gesù compie gesti che ricordano quelli della creazione, forse perché ogni volta che acconsentiamo ad aprire la zolla del nostro cuore è sempre un nuovo inizio, qualcosa di inimmaginabile si avvera, la vita prende nuova forma. Ed è festa, è inizio di bellezza, è gioia di nodi che si sciolgono, di orizzonti che si schiudono: è Lui che ci tocca. don Luigi Verdi /avvenire.it
Parole dure di Gesù che contengono la tenerezza
Ci sono parole dure, parole dalla scorza tanto resistente da non riuscire ad aprirle per estrarne il succo, come mandorle protette da un guscio invulnerabile. E arrivano, queste parole, come un sasso lanciato addosso, di cui si avverte solo la ferita che lascia sulla pelle. Nascosto e protetto è il senso, da lavorarci con dolorosa fatica o con amore. Ci sono colpi duri, se vuoi seguire Dio, colpi duri come quelli che spezzano la conchiglia per estrarre la perla, colpi che fanno cadere il fiore per aiutare il frutto a nascere, colpi che inchiodano alla croce per aprire alla profondità e alla passione del vivere. Gesù aveva parlato del suo farsi cibo per tutti e proprio questo era incomprensibile per i Giudei, che si immaginavano un Dio inaccessibile, potente e glorioso, non certo un Dio tanto intimo da diventare linfa nascosta. E quando l’annuncio del Maestro si allontana così tanto dalle mie convinzioni tutto diventa duro, oscuro, lontano: perché amare i nemici? Perché porgere l’altra guancia? Possibile che i ladri e le prostitute mi precederanno nel regno dei cieli? Perché spingere il cuore ad aprirsi su questa vertigine? Mi accorgo allora che la durezza è nel mio cuore che non riesce ad aprirsi alle Tue parole di tenerezza, che si ostina a volerti costantemente plasmare a mia immagine o a tentare di ridurti al mio piccolo e meschino tornaconto. Cosa avrei fatto se fossi stato tra loro in quei giorni? Da che parte sarei stato? Molto più facile voltare le spalle e tornarsene a casa, con appena un po’ di nostalgia per quelle parole così dolci, ma pure così capaci di scavare abissi. E Tu cosa hai provato nel vedere i discepoli, quelli che già da un po’ Ti seguivano ovunque, abbandonarti così? Hai visto come siamo fatti? Subito pronti a riconoscerti per un tozzo di pane da mettere sotto i denti, ma subito pronti anche a rinnegarti quando quel pezzo di pane mette in crisi la nostra vita. Me lo immagino come li guardavi mentre si allontanavano e si facevano via via più piccoli sulla strada. E il tuo sguardo ora si posa sui dodici, su quel gruppetto scalcagnato di pescatori che ti sei scelto, ma che non vuoi rendere schiavo: «Volete andarvene anche voi?» E c’è un attimo in cui tutto sembra fermarsi, un attimo, tra la tua domanda e la risposta di Pietro, sospeso come quando sta per accadere un miracolo. I tuoi occhi innamorati mi guardano, aspettano. Leggono nei miei occhi lo smarrimento, il disorientamento: se cerco la vita dove mai potrei andare? Lo vedi, non ho che domande per Te e solo una piccola, piccola fiducia.
Serata in memoria di Cristian Baggio
Pane donato per aiutarci nel cammino della vita
Il testo della prima lettura che leggeremo, tratta dal Primo libro dei Re, può forse aiutarci a meglio capire questi versetti del Vangelo, in cui Gesù ci parla ancora di pane e vita, vita e pane indissolubilmente impastati. Elia è solo nel deserto, ed è tanto disperato da desiderare la morte, sente che forse la sua vita non ha alcun valore, gli sembra che perfino la fede nel suo Dio non valga più niente. E si addormenta esausto il nostro Elia, con il cuore buio di nubi di sconfitta, oppresso dal senso di fallimento. Proviamo a entrare in lui, a chiudere gli occhi con lui in una delle nostre notti buie, una di quelle notti in cui tutto ci sembra irrimediabilmente perduto, in cui speriamo solo di non risvegliarci più dall’incubo della nostra vita. Il nostro ultimo pensiero, prima di dormire, è stato una specie di preghiera, un’implorazione verso un Dio che sembra svanito, lontano, assente. E una mano ci tocca la spalla, leggera come una carezza: «Troppo lungo per te il cammino, troppo dolore, troppo deserto ti asciuga l’anima. Mangia un po’, bevi un po’». Non risolve i nostri problemi Dio, non agita la bacchetta magica per dissolvere i pesanti nuvoloni che si sono addensati: Lui ci dà un po’ di pane, Lui ci dà un po’ di forza, quel tanto che basta a proseguire il cammino, passo dopo passo. «Alzati, mangia…»: è questione di vita o di morte il pane. È questione di gusto per la vita, che diventa pieno, eterno, infinito, quando c’è Dio a lasciarsi masticare. Il pane della vita, il pane che è passato attraverso il marcire del chicco, la battitura, la mietitura, che ha provato la macina e il fuoco: è questo il lungo cammino del pane che Gesù ha scelto di essere. «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo…» : non lo ha spiegato Gesù il cielo, non ci ha dato dimostrazioni teologiche di cosa sia e come sia fatto il cielo. Ci ha detto che è Vita indistruttibile. E che Dio è seminatore di perle e di stelle nei nostri campi. La terra deve essere annaffiata da un po’ di cielo, i deserti hanno bisogno di una luce che li faccia fiorire, i passi stanchi delle donne e degli uomini attendono una carezza leggera che li spinga un po’ più in là. Perché la terra da sola non ci basta: abbiamo bisogno di pane e infinito per vivere. E sarà per sempre. Luigi Verdi
Festa di San Rocco a Vallà
Busseremo e troveremo
Una storia d'amicizia ci insegna come pregare, una vicenda di affetti è il segreto della preghiera. Amico, prestami tre pani! Non per me, ma per un amico. Un uomo è uscito nella notte, ha camminato fino alla casa dell'amico, bussa e non chiede per sé, ma per un altro amico che a sua volta ha camminato nella notte, come in un girotondo. Da duemila anni ripetiamo il Padre Nostro, ma non siamo diventati fratelli e il pane continua a mancare. Una domanda enorme corrode le nostre preghiere: Dio esaudisce? Sì, ma non le mie preghiere, bensì le Sue promesse, perché egli si coinvolge, intreccia il suo respiro, mescola le sue lacrime con le mie. Dio vive con me, mi ama, e proprio per questo perdona i miei errori, toglie ciò che mi pesa sul cuore e lo imbruttisce, ciò che di me ha fatto male agli altri, ciò che degli altri ha fatto male a me. Chiude le ferite che io ostinatamente mantengo aperte. Il perdono non è un colpo di spugna sul passato, è un vento che spiana il futuro, insegna respiri. E noi che ora lo conosciamo, facciamo lo stesso con gli altri e con noi stessi, per tornare a vivere di pace. Non abbandonarci alla tentazione. Non chiediamo l’esenzione dalla prova, ma di non essere lasciati soli a lottare nel giorno del buio. E dalla sfiducia e dalla paura tiraci fuori; e da ogni caduta rialzaci. Anche se la porta è chiusa, anche se Dio sembra muto, anche se la fiducia si fa difficile, oltre la porta inizia il canto dell'amicizia. Quella porta non è lontana, è alla latitudine del cuore.
LAVORI IN CHIESA A POGGIANA
Procedono secondo i tempi i lavori di restauro della nostra chiesa. Lunedì 1/7 comincerà la posa del pavimento.
Se tutto va secondo i nostri calcoli sarà possibile inaugurare la chiesa con la festa del nostro patrono San Lorenzo.
Ci prepariamo tutti per questo bel evento che ci darà modo di celebrare anche una Santa messa in suffragio del carissimo don Antonio Salvalaio.
All’inaugurazione della chiesa siamo tutti invitati, vista l’importanza dell’evento.
Un amore troppo grande, quasi straniero
Vangelo che mette con le spalle al muro. Mi proteggo da questo vangelo, pensandolo rivolto agli altri, invece siamo tutti inviati, tutti sulla strada, come i Dodici, per essere un dito puntato su Gesù, un evidenziatore, un faro su di lui. E ci viene istintiva la scusa di Mosè: ma come Signore, mandi me balbuziente a parlare alla corte, si metteranno a ridere! O di Geremia: sono troppo giovane; di Amos che protesta: sono solo un mandriano, sto dietro alle mucche. Ma “l’annunciatore deve essere infinitamente piccolo, solo così l’annuncio sarà infinitamente grande” (G. Vannucci). Allora vado bene anch’io. Perché il sacerdote Amasia non si lascia aiutare dal piccolo profeta? Forse perché Dio brucia, e se l’accogli ti cambia la vita. Io non ero profeta; ero un bovaro, un contadino, mi occupavo della vita. Ma il Signore mi ha “preso”. Confessa una chiamata che è quasi una violazione da parte di Dio. Il vangelo di oggi ci aiuta a farci “prendere”. Per le strade di Galilea (ogni strada del mondo è Galilea) la gente vede arrivare, sotto il sole, due tipi strani, a piedi, più poveri di un povero, senza bisaccia e con solo un bastone. Li vede venire a due a due, che non è la somma di uno più uno, ma è l’inizio della comunione, la prima cellula della comunità. Ma così arriva il vangelo? Così è venuto Cristo, senza denaro, senza borsa, nudo sulla croce. Aveva solo un bastone, il legno della croce, piantato a sorreggere. Più che sui contenuti da trasmettere, Gesù con i Dodici insiste sulle modalità di come si passa nel mondo: liberi e leggeri. Il come si vive, è la vita. Prima si è visti, poi si è ascoltati. In tre anni di strade, olivi, lago, pane che non finisce, malati toccati e guariti, hanno appreso l’essenziale, hanno imparato Gesù. Lui porteranno in giro per le strade. Riassumo in due linee questo vangelo: l’economia della piccolezza e quella della strada. La piccolezza attraversa l’intera Bibbia e ne rappresenta l’anima profonda. Quella di Abele, delle donne sterili e madri, di Giuseppe venduto dai fratelli, di Amos e Geremia, della stalla di Betlemme, dei “beati i poveri”, del granello di senape, dei 12 che vanno senza niente fra le cose. L’economia della piccolezza ci fa trovare profeti là dove la grandezza vede solo piccoli contadini. E poi l’economia della strada: che è libera ed è di tutti, che non domanda tessere, che ti apre orizzonti ed è sempre nuova. Mettersi per strada è un inno alla libertà e alla fiducia. Un salmo cantato agli incontri che farai. E i Dodici vanno, più piccoli dei piccoli; li ha messi sulla strada che non si ferma, che verrà sempre incontro, che se li porterà con sé verso il cuore della vita. Vanno, profeti del sogno di Dio: quello di un mondo finalmente guarito; ripulito dai demoni che invecchiano il cuore giovane della vita.
La fede come un granello di insensata e folle speranza
Le storie si intrecciano, morte e vita si impastano e quando c’è di mezzo Dio possiamo esser sicuri che abbonderà solo la vita. Sembra quasi di stare là, leggendo questo brano di Vangelo, tra donne e bambine, con padri di famiglia e una moltitudine di gente che pigia. E Gesù lo vediamo in cammino, con calma, senza fretta, nonostante la morte che bussa alla porta di Giairo: l’ansia non lo prende, solo una folla che spinge, una ressa di curiosi che intralciano il cammino. Lui se ne va tranquillo, a dare ancora una volta uno scacco alla paura, a sconfiggere la nostra impotenza davanti al dolore. Le storie si intrecciano e si intrecciano anche le mani oggi: «Vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva»; e poi la mano dell’emorroissa, che tocca il mantello alle spalle; e la mano di Gesù, che afferra quella della bimba per strapparla al sonno della morte. La nostra fede ha bisogno di mani più che di pensieri e filosofie, si alimenta di gesti concreti, passa attraverso speranze irrazionali «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti…, Non temere, tu continua ad aver fede…» : anche a costo di essere insultati, anche se il rischio è quello di attirare sberleffi e sorrisetti sarcastici la fede si intreccia alla paura e con lei tesse fili di incredibile fattura. Mi commuove l’ostinata emorroissa, convinta che basterà un tocco, come una carezza al lembo del mantello, per guarirla: da dove prende questa convinzione? Chi le suggerisce questa caparbia idea? E il povero Giairo, come avrà percorso quegli ultimi metri che lo separavano dalla sua casa, sapendo già che la sua figlioletta era morta? Solo la disperazione di un padre può aver guardato a Gesù come all’ultima spiaggia nel naufragio delle speranze. E in fondo quel che oggi leggiamo è la fede dell’ultima spiaggia, forse perché soltanto chi sogna la luce nello sgomento delle tenebre più profonde, può trovarla. Le parole sono delle intruse tra noi e Dio: servono mani e occhi coraggiosi. «Mi basta toccare il mantello, mi basta che tu entri nella mia casa» questa poca fede a Dio basta. «Mi basta vederlo passare», penserà Zaccheo, «mi basta una tua parola per guarire il mio servo», manderà a dire il centurione a Gesù. La nostra fede è un pizzico di coraggio, un granello di insensata e folle speranza. Quel che basta a noi basta anche a Dio: là, su quella cha a noi sembra l’ultima spiaggia, troveremo Qualcuno che, afferrando la nostra mano, ci porterà a navigare oltre noi stessi e che ci ripeterà con infinito amore: «Alzati. Facciamo ancora un paio di bracciate insieme».